MITOLOGIA GRECA E ROMANA


Mitologia, lettera E

Echidna, Eco, Ecuba.

ECHIDNA: mostro dell'antica mitologia greca, figlia di Forcide e di Ceto, figli di Ponto e di Gaia; oppure nata dal misterioso Crisaore e da Calliroe, figlia d'Oceano o da Tartaro e Gaia. il suo nome significa "vipera". Nella parte superiore del corpo era una giovane ninfa dal bel viso, dallo sguardo dolce; per l'altra metà era un enorme serpente ricoperto di scaglie dai colori cangianti. Viveva un tempo in una grotta profonda tra gli Arimi; mangiava uomini crudi. Altre tradizioni la pongono nel Peloponneso: qui sarebbe stata uccisa nel sonno da Argo dai Cento Occhi, perché aveva l'abitudine di divorare i passanti.
Secondo la Teogonia attribuita a Esiodo, Echidna in unione a Tifeo o Tifone, il terribile avversario di Zeus nelle epoche cosmogoniche, generò parecchi mostri, fra i quali: Ortro, il cane a due teste di Gerione, che si giacque con la propria madre e generò in lei la Sfinge e il leone Nemeo; Cerbero, il cane infernale a tre teste; un'aquila che divorava ogni giorno il fegato (che sempre rinasceva) a Prometeo; una terribile scrofa crommionia che fu cacciata e uccisa da Teseo; la Chimera, capra che sputava fiamme, con la testa di leone e la coda di serpente, uccisa da Bellerofonte; l'Idra, serpente acquatico dalle molte teste che viveva nella palude di Lerna, dove gli omicidi venivano a purificarsi. Ecco l'origine del proverbio: "Una Lerna per i malvagi". Il drago Ladone che sorvegliava i pomi d'oro delle Esperidi. Secondo altre tradizioni, questo drago era figlio di Forcide e di Ceto, oppure figlio della Terra. Aveva cento teste e parlava un linguaggio umano. Fu ucciso da Eracle. A Echidna si attribuisce anche la maternità dell'insonne dragone di Colchide, che custodiva il Vello d'oro.

ECO: ninfa dei boschi e delle sorgenti, sulle cui vicende numerose sono le tradizioni; a Ovidio dobbiamo il racconto più ampio ed esauriente. Secondo Ovidio Eco, dotata di grande parlantina, fu punita per aver distratto Era con lunghe favole mentre le concubine di Zeus, le Ninfe della montagna, sfuggivano ai suoi occhi gelosi e si mettevano in salvo. La dea le tolse la voce in modo che non poteva mai parlare per prima, né tacere quando le si parlava, essendo costretta a ripetere le ultime sillabe dei discorsi che ascoltava. Secondo un'altra versione, sempre di Ovidio, Eco che viveva sui monti e nelle selve, si innamorò di Narciso e, non potendogli dire dell'amore che provava, gli ripeteva sempre le ultime sillabe delle parole da lui pronunciate. Narciso la respinse in modo brusco e fuggì: "Morirò prima che tu giaccia con me!" egli gridò. "Che tu giaccia con me!" ripetè Eco lamentosamente. Ma Narciso era sparito ed Eco trascorse il resto della sua vita in valli solitarie, gemendo d'amore e di rimpianto, finché di lei rimase soltanto la voce. Pure a Ovidio è dovuta un'altra redazione del mito di Eco: ella sarebbe stata una ninfa dedita alla musica e al canto, ma un giorno avrebbe respinto l'amore di Pan che l'aveva incontrata e si era innamorato di lei, e il dio, irato, le avrebbe sollevato contro i pastori che l'avrebbero fatta a brani e dispersa per i monti e le selve; di Eco sarebbe sopravvissuto solo la voce. Altre tradizioni la dicono figlia di una ninfa e di un mortale, oppure figlia di Era; si sarebbe unita a Pan e ne avrebbe avuto una figlia, Iunge.
Evidentemente tutte le diverse tradizioni nascono dall'intento di spiegare il fenomeno acustico dell'eco.

ECUBA: figlia di Dimante, re frigio, e della ninfa Eunoe; oppure, secondo altri, di Cisseo, re della Tracia, e di Teleclea; o del fiume Sangario e di Metopa; o di Glaucippa, figlia di Xanto. Ecuba era seconda moglie di Priamo, e gli generò diciannove dei suoi cinquanta figli, gli altri essendo figli di concubine. Il figlio maggiore di Ecuba era Ettore, che alcuni dicono figlio di Apollo, il secondo Paride, soprannominato Alessandro, la cui nascita fu preceduta da un sogno profetico; e poi Creusa, Laodice e Polissena; Deifobo, Eleno, Cassandra, Pammone, Polite, Antifo, Ipponoo, Polidoro e Troilo.
Tra i figli minori di Ecuba vi erano i gemelli Cassandra ed Eleno. Questi, il giorno genetliaco del padre, durante la festa che si celebrava nel santuario di Apollo Timbreo, stanchi di giocare si addormentarono in un canto, mentre gli incauti genitori, con le menti annebbiate dal vino, rientrarono a casa senza di loro. Quando Ecuba ritornò al tempio vide che i sacri serpenti stavano leccando le orecchie dei bambini e urlò terrorizzata. I serpenti subito sparirono, ma da quel momento Cassandra ed Eleno ebbero il dono della profezia.
Secondo un'altra versione, Cassandra un giorno si addormentò nel tempio e Apollo, apparsole all'improvviso, promise di istruirla nell'arte della profezia se avesse acconsentito a giacersi con lui. Cassandra, dopo aver accettato il suo dono, rifiutò di tener fede ai patti; Apollo allora le chiese un solo bacio e mentre Cassandra lo baciava le sputò nella bocca per far sì che nessuno credesse mai a ciò ch'essa avrebbe profetizzato.
Mell'Iliade, Ecuba è un personaggio di secondo piano e compare quando invita Ettore a riposarsi, e quando piange con le donne di Troia la morte di Ettore, presagio insieme della distruzione della patria e della rovina della famiglia, e ne rievoca la vita chiamandolo il più caro dei figli. Ma la figura di Ecuba s'ingigantisce soprattutto con i tragici. Euripide ne rappresenta le vicende dopo la distruzione di Troia in due tragedie, Ecuba e Le Troiane. Nella prima Ecuba, assegnata come schiava ad Agamennone, assiste al compiersi di due nuove terribili sventure che si aggiungono agli infiniti mali che già ha dovuto sopportare. La prina di tali sventure è il sacrificio di Polissena sulla tomba di Achille, deciso dai capi greci: invano Ecuba implora Agamennone e Odisseo di risparmiare la figlia e si offre di morire al posto di lei: Polissena è strappata dalle sue braccia e condotta alla morte, che ella affronterà con sereno coraggio, da libera e da figlia di re, preferendola a una vita oscura in dolorosa schiavitù. Ancora Ecuba non ha cessato il pianto sul cadavere di Polissena a cui vuole dare degna sepoltura, quando una schiava porta all'infelice regina il corpo del figlio Polidoro, ritrovato sulla riva del mare: egli è stato ucciso da Polimestore, a cui la madre l'aveva affidato perché sfuggisse ai pericoli della guerra. Alla vista del cadavere del figlio in Ecuba avviene una completa trasformazione interiore: dall'infinito dolore passa a un esasperato furore di vendetta; convince Agamennone ad aiutarla, facendo venire Polimestore con i suoi figli al campo, poi con un inganno, mentre Polimestore ipocritamente si mostra addolorato della morte di Polissena e dà false notizie di Polidoro, tacendone la morte, lo fa entrare nella sua tenda dove con l'aiuto delle altre prigioniere troiane gli uccide i figli e lo acceca.
Diversa è l'interpretazione del personaggio nelle Troiane: qui Ecuba, che è stata assegnata come schiava a Odisseo, vi appare come la viva personificazione dell'infinito dolore delle donne troiane superstiti di fronte alla distruzione delle loro famiglie, alla dura sorte di schiave che le attende, alla rovina della loro città. Di questa collettiva tragedia umana Ecuba è la voce disperata: ella maledice la guerra ed Elena che ne è stata la causa, piange la figlia Polissena sacrificata sulla tomba di Achille, accusa spietata Elena di fronte a Menelao, invitandolo a fare giustizia dell'origine di ogni sventura, dà sepoltura ad Astianatte e infine leva l'estremo canto di morte mentre Troia arde nell'ultima rovina.
Sulla morte di Ecuba diverse sono le versioni. Odisseo, avuta in sorte Ecuba come schiava, la portò nel Chersoneso di Tracia, dove la regina coprì di tali invettive Odisseo stesso e tutti gli altri Greci che fu necessario metterla a morte. Secondo un'altra versione, Ecuba fu trasformata in una cagna mentre era inseguita dai compagni di Polimestore, che per vendicare il loro re la uccisero. Il luogo dove venne sepolta fu chiamato "la Tomba della Cagna".