MITOLOGIA GRECA E ROMANA


Mitologia, lettera L

Lara, Lari, Latino.

LARA: una delle Naiadi, figlia del fiume Almone. Rifiutò di aiutare Giove a catturare la ninfa Giuturna, della quale era innamorato, mettendola in guardia contro di lui, e arrivando persino a raccontare tutto alla stessa Giunone. Irritato, Giove le strappò la lingua in punizione della sua petulanza. Essendo condotta, per ordine di Giove, agl'Inferi da Mercurio, questi si innamorò di lei e la rese madre dei gemelli Lari, dèi del culto familiare dei Romani.

LARI: la mitologia romana fra le molte divinità indigene maggiori e minori che presiedevano a tutti gli eventi della vita ci presenta come genii del campi e della casa i Lari, che hanno caratteristiche comuni coi Penati. Quanto alla natura i Lari furono considerati divinità dei vici e delle vie, o custodi delle case. Il Lar familiaris, onorato presso il focolare domestico, è considerato come lo spirito del capostipite della famiglia, rappresentante la continuità di essa e perciò anche la casa degli antenati in cui la famiglia risiede. I Romani li veneravano in particolare nel culto privato insieme con altre divinità della casa come Vesta, i Penati, i Manes. Ma alcuni ritengono che in origine furono divinità protettrici dei campi e dei singoli poderi, e quindi venerati nei crocicchi delle strade campestri (compita), dove veniva innalzata una cappella, presso la quale si celebrava ogni anno una festa popolare (Compitalia, Laralia), certamente antichissima.
Il culto pubblico dei Lari era attribuito a Servio Tullio, e si riferiva che l'idea di esso era stata concepita dalla madre di lui Ocrisia mentre stava offrendo un sacrificio. Le tradizioni relative ai Lari, pur così varie, si accordano nell'indicarli come dèi che presiedevano all'esistenza familiare e le loro immagini erano collocate insieme con quelle dei Penati presso il focolare domestico, in un Lararium, una specie di modesto tabernacolo. Alla casa erano strettamente legati, e non l'abbandonavano anche se la famiglia ne emigrava. In loro onore il focolare veniva adornato di corone tutti i giorni; alle calende, alle none, alle idi e in altri giorni festivi si facevano offerte votive di vino, focacce, favi di miele, frutta e, talvolta, incenso e animali, un porcello, un agnello. I grandi avvenimenti della vita di famiglia offrivano l'occasione di una devozione particolare ai Lari. La sposa entrando nella casa del marito offriva un sacrificio; i giovinetti, quando indossavano la toga, dedicavano ai Lari le loro bullae, e le fanciulle le loro bambole; il soldato che aveva terminato il servizio militare le sue armi; lo schiavo liberato, le sue catene.
Non mancarono altri aspetti del culto dei Lari. Infatti oltre i crocicchi anche le vie in generale godevano della loro protezione. Si invocava la loro assistenza al momento di intraprendere un viaggio, e si rendevano loro grazie per il ritorno felicemente compiutò.
I Lari erano raffigurati come adolescenti, che tenevano in mano un corno dell'abbondanza e volteggiavano leggermente sulle punte dei piedi. I loro abiti erano corti, come si conviene a dèi agili.

LATINO: nella tradizione romana compare come eroe eponimo dei Latini. Un re di questo nome si incontra per la prima volta nella Teogonia di Esiodo, che menziona, come figli di Odisseo e di Circe, Latino e Agrio, signori di una regione dell'estremo Occidente, che regnarono su tutti i Tirreni. Questa testimonianza associava le origini di Roma e del suo eponimo al mito di Odisseo e di Circe, anziché a quello di Enea che divenne poi predominante nella storia leggendaria dell'Occidente. La saga posteriore, riferita da alcuni storici greci, come Timeo, presenta Latino come figlio di Telemaco e di Circe, re dei Borigoni (Aborigeni), abitanti del Lazio, che dal nome del loro re si chiamarono Latini. Una tradizione oscura racconta che Eracle, ritornando dai luoghi di Gerione, giunto sulle rive dell'Albula, in seguito chiamato Tevere, fu accolto da re Evandro, un'esule dall'Arcadia, e generò Latino dalla vedova di Fauno, oppure dalla di lui figlia. Ma i Greci sostengono che Latino era figlio di Circe e di Odisseo.
La leggenda già elaborata dai Greci venne accolta dai poeti Nevio ed Ennio, e così pure dagli annalisti e dagli antiquari romani, fra cui Catone, e fu ulteriormente sviluppata. Latino re degli Aborigeni accolse Enea sbarcato nel Lazio e gli diede la figlia Lavinia in sposa; ma, scoppiata discordia fra i due popoli, Latino si alleò con Turno, re dei Rutuli, e venuto a battaglia con Enea cadde sul campo. Enea vittorioso unì i Troiani e gli Aborigeni in un unico popolo, dando origine al popolo dei Latini, sui quali regnò, e tramandò il regno ai suoi discendenti finché dalla stirpe di Enea nacquero i gemelli fondatori di Roma.
Un'elaborazione diversa della leggenda diede Virgilio eliminando la condotta incerta di Latino. All'arrivo di Enea nel Lazio vi si trovava il popolo reale e autoctono dei Latini; Latino non è discendente di Ulisse ma del latino Fauno e delle ninfa indigete Marica. La guerra fra Troiani e Latini non è dovuta a violazione di un patto giurato, ma è voluta da Giunone sempre avversa ad Enea, e all'amore di Turno per Lavinia.
Latino e la sua sposa Amata, avevano promesso la loro unica figlia Lavinia in sposa a Turno re dei Rutuli. Ma prima dell'arrivo di Enea, un oracolo aveva detto che Lavinia doveva sposare un uomo che giungeva da lontano. Latino riconobbe in Enea il candidato e lo accolse con cordialità, ma Giunone intervenne ancora mandando la furia Aletto a suscitare la guerra fra Troiani e Latini, a ispirare nel cuore della regina Amata un'invincibile avversione per Enea e a destare nel cuore di Turno, re dei Rutuli, viva gelosia. Infine Aletto provocò un incidente. Durante una battuta di caccia, Ascanio, figlio di Enea, colpì con un dardo, in modo da ferirlo soltanto, un cervo addomesticato particolarmente caro a Silvia, figlia di Tirro, custode degli armenti di Latino. Alle grida di Silvia accorsero in gran numero pastori e contadini con pertiche, pali, mazze, forche. Inaspriti gli animi, accorsero altri pastori ed altri Troiani, e così la zuffa si trasformò presto in battaglia. Amata e lo stesso Turno spinsero Latino alla guerra contro i Troiani; ma Latino si rifiutò e restò fermo nel suo proposito, e quando alfine vide che nulla poteva contro la follia e la cecità di tutto il popolo, abbandonò le redini del regno. Tuttavia rifiutò di aprire le porte del tempio di Giano, senza il quale rito la guerra non poteva essere dichiarata. Ma a questo provvide la stessa Giunone, sicché in breve Turno riunì i suoi alleati tra cui Camilla dei Volsci e l'esiliato etrusco Mezenzio. Enea ebbe l'appoggio di Tarconte, re degli Etruschi i quali odiavano Mezenzio per la sua crudeltà, e di Evandro l'arcade, che era imparentato con i Troiani e aveva da poco fondato la sua colonia a Pallanteo (sul colle Palatino). Turno attaccò il campo troiano e cercò di bruciare le navi che vennero da Cibele trasformate in Ninfe marine. La battaglia stava volgendo al peggio; Pallante, il giovane figlio di Evandro, e molti altri dei suoi uomini furono uccisi, ma Enea uccise Mezenzio e suo figlio Lauso e mutò le sorti della battaglia. Venne stabilito un armistizio e si giunse all'accordo di risolvere la questione con un combattimento singolo tra due campioni. Ma Giunone fece in modo che i Latini rompessero il patto, e nella battaglia che seguì Enea venne ferito. Venere lo curò ed egli attaccò Laurenzio, la città di Latino, con tale violenza che Amata, credendo Turno morto, si tolse la vita. Ancora una volta Turno accettò la tregua e il combattimento singolo, ma sua sorella Giuturna, una ninfa d'acqua che l'aveva aiutato a resistere a Enea, ora abbandonò la sua causa ed Enea lo sconfisse. Turno gli chiese di risparmiargli la vita ed Enea, compassionevole come sempre, vorrebbe salvarlo, ma alla vista del cinturone di Pallante che Turno indossava come un trofeo, fu preso dall'ira e lo trafisse. Dopo la morte di Turno, Latino concluse la pace coi Troiani; Enea sposò Lavinia e governò sui Latini e i Troiani. Fondò un nuova città chiamandola Lavinium, dal nome di sua moglie.