MITOLOGIA GRECA E ROMANA
Mitologia, lettera O
Onfale, Oniro, Orazio, Ore.
ONFALE: figlia di Iardano, aveva ereditato il regno di Lidia dal suo sventurato marito Tmolo, figlio di Ares e di Teogone, il quale violentò una compagna di Artemide, chiamata Arripe. La dea lo fece uccidere da un toro furioso. Suo figlio, Teoclimeno, lo seppellì sul monte che, in seguito a ciò, assunse il nome di Tmolo.
Eracle giunse alla Corte di Onfale come schiavo venduto da Ermete, il quale voleva che l'eroe si purificasse dell'uccisione di Ifito, uno dei fratelli di Iole. Tra le molte imprese minori compiute da Eracle durante la sua schiavitù vi fu la cattura dei due Cercopi, Passalo e Acmone, che da tempo gli impedivano di dormire. In una stretta gola della Lidia viveva un certo Sileo che catturava gli stranieri di passaggio e li costringeva a zappare la sua vigna. Ma Eracle gli sradicò tutte le viti. Quando poi i Lidi di Itone cominciarono a fare incursioni nel regno di Onfale, Eracle ricuperò il bottino e rase al suolo la loro città. Si recò a Celene per portare aiuto al pastore Dafni e alla sua diletta Pimplea e decapitò il mietitore Litierse che li teneva schiavi. Infine, presso il fiume Sagari in Lidia, uccise con una freccia un gigantesco serpente che faceva strage di uomini distruggendo le messi. Onfale, ammirando le imprese del suo schiavo e venendo a sapere chi erano i suoi genitori, gli restituì la libertà e lo sposò. Ella gli generò un figlio, Lamo.
Ben presto però l'eroe fu preso da un tale amore per Onfale da dimenticare ogni senso di dignità. Luciano (Dialoghi, XXV) narra che per far piacere all'amata, Eracle le cedette la pelle del leone Nemèo e la clava e giunse a portare collane di pietre preziose e a vestirsi di una gonnella di croco e di porpora, a scardassare la lana e a torcere con la sua grossa mano virile il fuso, nonché a ricevere dalla regina stessa qualche scherzosa percossa con la pantofolina dorata se per caso, con le dita maldestre, gli capitava di spezzare il fuso. Trascorso questo tempo, Eracle lasciò la Lidia e ritornò a Tirinto, e subito organizzò una spedizione contro Troia.
ONIRO: era presso i Greci la personificazione divinizzata del sogno. Omero lo rappresenta come un nunzio alato e leggero inviato da Zeus ai mortali per comunicare loro le sue volontà nel sonno, o per suggerire consigli divini. Ma Oniro non è ancora una personificazione né una divinità. Faceva parte della cerchia di Ipno e in modo molto singolare in Epidauro a quella di Asclepio e Anfiarao: i malati dopo avere sacrificato ad Asclepio, pernottavano nell'Ascleipeo (o Incubatorio) in attesa dell'incubazione, cioè il malato, durante il sonno notturno, riceveva da Anfiarao (per tramite di Oniro il sogno), un responso che poi veniva interpretato dagli indovini che suggerivano la cura.
Vi era la credenza che i sogni dimorassero sulla via dell'Ade e quella che i sogni falsi uscissero da una porta d'avorio e i veritieri uscissero da una porta di corno. Simboli particolari furono attribuiti a Oniro dai mitografi e dai poeti, come la veste bianca e quella nera per i sogni notturni o diurni. Il corno è propriamente un attributo di Hypnos, il Sonno, con cui Oniro tende a confondersi. Nella Teogonia di Esiodo i Sogni sono detti figli della Notte, in Euripide figli della Terra e Geni dalle ali nere; Ovidio li chiama figli del dio del Sonno e ne ricorda i tre principali: Morpheus, Icelus e Phobetor.
ORAZIO: eroe romano che nel 507 a. C. si oppose sul ponte Sublicio, da solo, all'esercito di Porsenna che voleva riportare la famiglia di Tarquinio il Superbo al trono. Rimase zoppo in seguito a una ferita alla coscia riportata durante l'azione. Era un discendente di Publio Orazio. Il popolo si era rifugiato dietro le mura della città, il Gianicolo era già stato preso dagli Etruschi, era perciò indispensabile distruggere il ponte. Orazio insieme a Spurio Larzio e a Tito Erminio tennero a bada il nemico fino a che tutti fossero passati, poi Orazio allontanò anche i due compagni e il ponte crollò. Si lanciò nelle acque del Tevere dove, secondo Polibio, perì, mentre secondo la tradizione più tarda (Livio, Plutarco), si salvò a nuoto. La repubblica riconoscente gli fece dono di tanta terra quanta fosse stato capace di arare in un giorno solo e gli avrebbe innalzato una statua nel Comitium nella quale il valoroso sarebbe stato rappresentato guercio e zoppo; da ciò il soprannome di Cocles (Coclite).
ORE: secondo la mitologia greca, erano dee o ninfe che presiedevano all'ordine delle leggi naturali e alla giustizia sociale. Per Esiodo, le Ore erano tre: Eunomia (Legalità), Dike (Giustizia) e Eirene (Pace); figlie di Zeus e di Temi e sorelle delle Moire (i Destini), rappresentavano il corso della natura nella vicenda delle stagioni che, nell'anno greco, erano appunto tre, mancandovi la suddivisione fra estate e autunno. Gli Ateniesi le chiamavano Tallo, Auxo e Carpo, tre nomi che evocano l'idea di spuntare, di crescere e di fruttificare. Omero, che non ne precisò né il numero né il nome, le descrisse come le custodi delle porte del cielo fin dal principio del tempo. Nell'Olimpo, hanno funzioni diverse: passavano talvolta per aver allevato Era, di cui sono le serve; sono anche il seguito d'Afrodite, allo stesso titolo delle Cariti, e figurano nel corteo di Dioniso e fra le compagne di giochi di Persefone. Pan, il dio dei boschi e delle greggi, ama la loro compagnia. In età romana le Ore divennero dodici, tante quante le parti in cui fu suddiviso il giorno. Parecchie città greche, come Atene, Argo e Corinto, dedicarono un culto speciale alle Ore; oltre ad accompagnare il carro del sole, a custodire le barriere celesti, o presiedere il corso delle stagioni, esse erano considerate le protettrici dell'ordine morale tra gli uomini, le dee che ne regolavano la vita e, in particolare, che presiedevano all'educazione dei fanciulli. Rappresentate dall'arte arcaica in numero di due o di tre e con varianti attributi, con la suddivisione dell'anno in quattro stagioni, furono per lo più raffigurate in numero corrispondente, con l'aspetto di bellissime fanciulle in atto di danzare o di correre, con il capo adorno di foglie di palma e con attributi costanti, relativi alla stagione che ciascuna di esse rappresentava.