MITOLOGIA GRECA E ROMANA
Mitologia, lettera P
Proserpina, Proteo.
PROSERPINA: divinità romana degli Inferi, il cui nome è una probabile latinizzazione del nome della dea greca Persefone o Core con la quale va in ogni caso identificata. In origine fu una dea agreste, che presiedeva alla germinazione. Secondo una leggenda tramandataci da Valerio Massimo, il culto di Proserpina fu introdotto in Roma con quello di Dite per scongiurare una grave pestilenza. I figli di un certo Valerio furono colpiti dal morbo. Il loro padre, allarmato, chiese agli dèi che cosa doveva fare per salvarli, ed essi risposero che doveva seguire il corso del Tevere, con i figli, fino a "Tarentum", e qui dar loro da bere l'acqua dell'altare di Dis e di Proserpina. Valerio provò fastidio per dover intraprendere un sì lungo viaggio. Si mise tuttavia in marcia, e la prima sera, si accampò ai margini del fiume. L'indomani chiese agli abitanti del paese come si chiamasse quel luogo. Gli risposero "Tarentum". Comprese allora il vero significato dell'oracolo, colse l'acqua del Tevere e la diede da bere ai figli, i quali guarirono. Riconoscente volle innalzare in quel punto un altare a Dis e a Proserpina, ma scavando il suolo per fondarvi l'edificio, scoprì una pietra che recava già un'iscrizione in onore di queste due divinità: era l'altare di cui aveva parlato l'oracolo.
Da Varrone e Livio sappiamo che fin dal 249 a. C. a Roma si erano celebrati i ludi tarentini o saeculari in onore di tale dea, con sacrifici nel Tarentum. E proprio da Taranto sembra che Proserpina sia stata importata, in epoca molto anteriore alla conquista romana della Grecia. Identificata ben presto con Libera, non raggiunse mai tra i Romani molta popolarità.
PROTEO: vecchio nume marino, servo di Poseidone, del quale pascolava i branchi di foche e di altre creature marine presso l'isola di Faro, davanti alle foci del Nilo. Come tutte le divinità marine aveva il dono della divinazione e capacità metamorfiche.
Racconta Omero che Menelao interrogò Proteo, per consiglio della figlia Idotea, sul modo di tornare in patria, e lo invitò a dargli notizia della sorte toccata agli altri eroi dopo la caduta di Troia. Il nume dapprima tentò di eluderlo, ma non potendo sfuggire alla sua stretta, gli annunciò che Agamennone era stato ucciso e che lui doveva recarsi un'ultima volta in Egitto e propiziarsi gli dèi con ecatombi. Menelao obbedì agli ordini di Proteo e non appena ebbe innalzato un cenotafio ad Agamennone, i venti spirarono favorevoli ed egli giunse finalmente a Sparta, accompagnato da Elena. Così Aristeo che aveva offeso Orfeo e le ninfe si recò a cercare Proteo che stava facendo la siesta pomeridiana in una grotta dell'isola di Faro per ripararasi dalla canicola. Lo catturò e si fece dire perché le sue api stavano morendo e quale offesa aveva arrecato e a chi per essersi meritato quel castigo. Proteo gli spiegò che la malattia delle api era una punizione inflittagli perché egli aveva provocato la morte di Euridice. Infatti, quando Aristeo aveva tentato di sedurla sulle rive del fiume Tempe, Euridice era fuggita ed era stata morsa da un serpente. Il vecchio nume gli consigliò poi come compiacere le ninfe e far vivere le sue api.
Proteo era re Egizio che regnava a Menfi, al tempo in cui Elena e Paride furono gettati dalla tempesta sulla costa del paese. Furono portati davanti al re, il quale decise di rimandare il rapitore in Troia e di tenere con sé Elena insieme ai tesori ch'ella aveva portato da Sparta, in attesa che Menelao venisse a riprenderseli. Una versione del tutto diversa narra che Ermete rapì Elena per ordine di Zeus e la affidò a re Proteo d'Egitto; frattanto un fantasma di Elena, fabbricato da Era (o secondo altri, da Proteo) con una nuvola, fu mandato a Troia con Paride, al solo scopo di provocare la guerra. Secondo questa versione del mito, dopo qualche tempo Proteo morì e il figlio che aveva avuto dalla Nereide Psamate, Teoclimeno, cercò di convincere Elena a sposarlo. Elena si salvò grazie al proprio ingegno e al tempestivo arrivo di Menelao.