Mitologia Greca e Romana
Mitologia, lettere P e Q
Psiche, Pterelao, Quirino.
PSICHE: il mito di Amore e Psiche, la cui elaborazione più raffinata e completa è nei libri quarto, quinto e sesto delle Metamorfosi di Apuleio narra che Psiche, figlia d'un re, aveva due sorelle. Tutte e tre erano bellissime, ma Psiche era di una bellezza tale che aveva reso gelosa perfino Afrodite.
La dea, irata, decise di punirla e ordinò ad Amore di ferirla con le sue frecce e farle nascere in cuore un affetto indegno. Ma Amore, vistala, se ne innamorò, e la fece rapire da Zefiro e trasportare in un meraviglioso magico palazzo. La fanciulla penetrò nelle stanze che s'aprivano davanti a lei e fu accolta da voci che la guidarono e le rivelarono di essere altrettante schiave al suo servizio, una voce gentile le disse di non avere paura. La giornata trascorse di stupore in stupore e di meraviglia in meraviglia. La sera, Psiche avvertì vicino a lei una presenza che le disse d'essere il suo sposo e aggiunse che avrebbe potuto vivere la più felice delle vite se non si fosse lasciata tentare dallo scoprire chi egli fosse e se non avesse mai cercato di vederlo. Psiche si innamorò di lui profondamente. Di giorno, lei era sola nel suo palazzo pieno di voci. Di notte, era raggiunta dal suo sposo. Era felicissima, ma un giorno cominciò a sospirare la famiglia, il padre e la madre, e chiese all'amante il permesso di poter tornare per un po' di tempo presso i suoi. Dopo molte preghiere, Psiche finì per spuntarla. L'occidentale vento Zefiro la trasportò fino alla sommità della roccia e, da qui, fece ritorno a casa. Le furono fatte grandi feste e le sorelle vennero a trovarla. Queste, nel vederla così felice e nel ricevere i regali ch'ella aveva loro portato, furono prese da una grande gelosia. Riuscirono poi a scoprire che Psiche non aveva mai veduto in volto il suo sposo e le insinuarono il dubbio che un giorno si sarebbe trasformato in un serpente che risalendo fino al suo ventre avrebbe ucciso il bambino che portava.
Psiche ritornò al palazzo e, dilaniata dai dubbi, decise di soddisfare la sua curiosità. Nascose nella camera una lucerna e la notte, approfittando del sonno di Amore, l'accese; ma rimase tanto rapita nella contemplazione del suo sposo che dimenticando ogni prudenza, lasciò cadere sul dormiente una goccia d'olio caldo. Amore crucciato si svegliò e scomparve. Disperata, Psiche lo cercò in ogni dove vanamente, inseguita dalla collera di Afrodite. Non ricevendo aiuto da alcuna divinità, si recò infine al palazzo di Afrodite. La dea la lasciò entrare ma la ridusse in schiavitù e le ordinò di eseguire prove durissime e terribili: mondare semi che riempivano una stanza prima che scendesse la notte, raccogliere lana di montoni selvatici, riempire una giara con l'acqua del fiume Stige nella parte montagnosa dell'Arcadia, infine discendere agli Inferi. Qui doveva chiedere a Persefone uno scrigno che conteneva la bellezza. La dea le diede lo scrigno chiesto da Afrodite, accuratamente sigillato. Sulla via del ritono, Psiche si lasciò prendere dalla curiosità e dal grande desiderio di riconquistare l'amore del suo sposo e aprì lo scrigno che le era stato dato da Persefone. Cadde nel sonno mortale contenuto nello scrigno e così fu trovata da Amore che le restituì la vita e la portò con sé sull'Olimpo. Il matrimonio fu celebrato dagli dèi, Afrodite dimenticò la sua ira, e lo stesso Zeus le offrì una coppa di nettare che la rese immortale. Psiche generò ad Amore una figlia, Voluttà.
La favola di Amore e Psiche (l'anima) fu per la prima volta cantata dal poeta ellenistico Meleagro nel I secolo a. C., pur essendo certamente più antica, poi elaborata nel romanzo di Apuleio assunse un particolare valore morale e religioso, in relazione con le interpretazioni neoplatoniche, appunto in quanto appare il concetto che l'Amore delle cose divine apre la via all'immortalità. Psiche, personificazione dell'anima umana, tende a ricongiungersi con Amore, simbolo della bellezza immortale di Dio.
PTERELAO: re dei Tafi, e nipote di Poseidone dal quale aveva ricevuto in dono un capello d'oro che lo rendeva immortale.
Elettrione regnava su Micene, e i figli di Pterelao giunsero a reclamare tale regno che era appartenuto al loro bisnonno Mestore. Elettrione respinse la loro richiesta, e, per vendicarsi, i giovani rapirono le mandrie del re. I figli di Elettrione li avevano sfidati in combattimento, e tutti si erano uccisi reciprocamente. Delle due famiglie sopravvissero soltanto, fra i figli di Elettrione, Licinnio, e, fra quelli di Pterelao, Evere.
Anfitrione voleva sposare Alcmena, la figlia di Elettrione; ma questi dichiarò che avrebbe dato il suo consenso solo dopo essere stato vendicato degli abitanti dell'isola di Tafo che gli avevano rubato le mandrie e ucciso i figli. Prima della spedizione Elettrione mandò Anfitrione a Elide per recuperare le mandrie che i Tafi avevano nascosto. Di ritorno col bestiame, Anfitrione per errore uccise il suocero, colpendolo con un bastone che aveva lanciato contro una delle vacche.
Stenelo, fratello di Elettrione, mise al bando Anfitrione e si impadronì del regno di Micene. Anfitrione con Alcmena fuggì a Tebe, dove Creonte lo purificò. Ma la morte dei fratelli di Alcmena non era stata ancora vendicata, compito che spettava ad Anfitrione. Alcmena si rifiutava di cedergli, fin tanto che lui non avesse compiuto il suo dovere. Anfitrione organizzò una spedizione contro i Tafi e i Teleboi. Ma esisteva un oracolo secondo cui, finché fosse vissuto Pterelao, nessuno avrebbe potuto conquistare Tafo, sua patria. Pterelao infatti era immortale, o almeno la sua immortalità era legata a un capello d'oro che il nonno Poseidone aveva piantato sulla sua testa. Pterelao era dunque sicuro della vittoria, ma sua figlia Cometo s'innamorò di Anfitrione e, per meritarsi il suo affetto, strappò il capello magico dalla testa del padre, cosicché questi morì e Afitrione potè sopraffare facilmente i Teleboi, s'impadronì di tutto il loro territorio e decretò che Cometo fosse giustiziata per patricidio.
QUIRINO: antichissima divinità romana, di origini e di etimologia discusse. L'etimologia di Quirino da Cures, città dei Sabini al confine del Lazio, pare non abbia altro valore, data la somiglianza dei nomi, che di una spiegazione erudita accreditata da Terenzio Varrone, il quale per altro spiega il nome di Quirino anche con il sabino curis (lancia). Sono le etimologie accettate da tutti gli scrittori antichi posteriori e che Ovidio tenta di combinare. Si volle anche mettere il nome in relazione con Curia, divisione delle tribù primitive della popolazione romana, di cui Quirino sarebbe stato il protettore; altri pensarono, per gli etnici Quirinus e Quirites, a un nome locale Quirium poi dimenticato. Si suppose anche che Quirino fosse losdoppiamento di uno Juppiter Quirinus, di un Mars Quirinus, di un Ianus Quirinus, che probabilmente vanno invece considerati come tardivi accoppiamenti. Quirino è certamente in stretto rapporto con Quirites, un nome di popolo o di tribù che in età storica era equivalente a Romani; Quirino è da ritenersi cioè come l'eponimo fittizio di Quiriti e deriva perciò da quest'ultimo termine. I Romani nell'età repubblicana identificarono Quirino con Romolo. Che in età assai remota Quirino fosse considerato come una divinità è provato dal fatto che aveva in Roma un suo proprio flamine, il flamen Quirinalis, uno dei tre flamini maggiori accanto al Dialis e al Martialis. Inoltre, nell'antichissimo feriale ricorreva al 17 febbraio la festa delle Quirinalia, che secondo la tradizione risaliva al regno di Numa. Del resto sul Quirinale, che prese dal dio il nome, si trovava un suo antichissimo santuario; il console L. Papirio Cursore, vincitore dei Sanniti, gli dedicò nel 298 a. C. un tempio assai importante, ornandolo con i trofei delle guerre sannitiche e con la prima meridiana. Tito Livio parla di un'adunanza tenuta dal Senato nel 435 a. C. in aede Quirini, cioè nel vetusto sacello, ma è notizia senza valore storico.